L’ivoriano, che ha scontato tredici anni di carcere dopo il processo con rito abbreviato per l’omicidio di Meredith Kercher, dichiara: “Non sono riuscita a salvarla”
A distanza di tredici anni dall’omicidio di Meredith Kercher, Rudy Guede torna ad essere ufficialmente un uomo libero e per la prima volta, dopo la morte della studentessa inglese, è tornato a Perugia. “Io ho cercato solo di soccorrere una ragazza che poi è morta”, ha dichiarato l’ivoriano. Guede ha scontato la sua pena: il tribunale di Perugia lo condannò a 16 anni di carcere per violenza sessuale e concorso in omicidio. Fu l’unico tra gli indagati dell’omicidio a scegliere il rito abbreviato e l’unico che, alla fine del processo lampo, fu condannato.
Raffaele Sollecito e Amanda Knox, inizialmente incriminati, vennero assolti e scarcerati dalla Corte d’assise d’appello nel 2011 per non avere commesso il fatto (relativamente all’omicidio), mentre per Amanda Knox fu confermata la condanna a tre anni per calunnia nei confronti di Patrick Lumumba (da lei accusato dell’omicidio e risultato estraneo ai fatti). Decisive furono le perizie che escludevano la certezza della presenza sulla scena del crimine dei due imputati. Guede ha scontato in carcere tredici anni. Ora vive a Viterbo, ma continua a dichiarare la sua innocenza. “La pena che dovevo scontare in nome della legge si è conclusa, ora mi resta quella segnata dal giudizio degli sconosciuti, dalle occhiate sghembe al mio passaggio”, ha confermato in una lunga intervista al Corriere della Sera.
In carcere ha vissuto momenti di terrore, come la morte del suo compagno di cella per suicidio: “Nei primi giorni di galera in Germania mi hanno tenuto isolato per tre giorni in una cella da solo, quando mi hanno fatto uscire ho chiesto una lametta da barba e mi sono tagliato, caddi per terra, venni soccorso”. Guede è stato poi trasferito in Italia. “Il momento più brutto – ricorda – è stato quando il mio compagno Roberto si è tolto la vita. Stavo rientrando in cella, ho aperto lo spioncino e ho visto che i suoi piedi penzolavano, si era impiccato con il mio scaldacollo, ho rivisto di nuovo la morte da vicino”. In carcere ha subito violenze: “Una volta venni picchiato dai compagni di cella. Mi imposero di pulire la stanza, dissi no, mi colpirono all’occhio sinistro. Piangevo senza farmi vedere. Quante volte mi sono svegliato nel cuore della notte, ingannato dal sogno di essere libero, di stare coi miei amici, con la mia famiglia. In quei momenti l’unico modo di reagire era aggrapparmi a quelle ali che si chiamano ricordi e volare ai tempi dell’infanzia”.
Guede è poi tornato sull’omicidio di Meredith: continua a professarsi innocente e dichiara di aver scritto una lettera alla famiglia della giovane. “Se le mie mani sono macchiate di sangue è perché ho tentato di salvare Meredith. La paura ha preso il sopravvento e sono scappato come un vigliacco lasciando Mez forse ancora viva. Di questo non finirò mai di pentirmi”, dice. “Non passa giorno che non le dedichi un pensiero. È un macigno nell’anima, sarà così finché vivrò. Ho scritto ai suoi familiari ma non mi hanno risposto. Vorrei dirgli di perdonarmi se non sono riuscito a fare tutto il possibile per salvarla. Farle visita al cimitero in Inghilterra? Meglio di no”. Guede vive ora a Viterbo, è fidanzato e ha due lavori: la mattina è in biblioteca, mentre la sera lavora in un ristorante. “Non riesco a stare in casa, mi sembra di soffocare, come quando stavo in cella. Sto fuori anche se piove”.
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